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Cooperativa nazionale edile di Campegine (CNEC)


Profilo storico


 1. LE ORIGINI

Nel 1908 nasce a Campegine la Cooperativa muratori, costretta a sciogliersi nel 1923, per l’impossibilità di competere col Sindacato corporativo muratori fascisti che spadroneggia nei lavori pubblici e privati.

Nel 1930 nasce la Cooperativa nazionale edile. Tra i 12 soci fondatori, tutti muratori, diversi sono ex soci della cooperativa socialista sciolta sette anni prima. Risulta comunque pesante l’ingerenza del Fascio locale, il cui segretario, ad esempio, è sempre presente alle sedute di bilancio della cooperativa.

Inizialmente il lavoro è scarso e per questo si dà la possibilità ai soci di integrarlo con una propria attività privata, a patto che il ricavato sia versato alla cooperativa, così che la retribuzione resti uguale per tutti i soci.
Nel 1933 il lavoro aumenta, con importanti lavori all’aeroporto di Reggio, poi a Parma e Piacenza e così, nel 1937, si registra un bilancio pienamente soddisfacente. Nel 1941 si realizzano quindi le condizioni per l’acquisto di una sede stabile. Da qui in poi le cose cambiano.


2. LA COOPERATIVA E CAMPEGINE

Con la guerra la cooperativa si trova in una paralisi pressoché completa e anche con la Liberazione continua a patire la difficolta di reperire lavoro. Nel 1948 addirittura l’80% dei soci risulta disoccupato.

«Ancora nel secondo dopoguerra a Campegine c’erano l’agricoltura e l’edilizia, non c’era nient’altro, salvo qualche piccolo artigiano in proprio, non c’era nessuna possibilità di lavoro. A quel punto le forze migliori del paese, intellettualmente più predisposte, si riversavano sull’unica azienda, la cooperativa, che poteva dare loro il lavoro e la possibilità di esprimersi e naturalmente avendo la possibilità di reclutare le forze vive, giovani, di un paese è chiaro che si concentrava qui una forza che ha dato slancio a questa impresa.» [LR]*

«Un vecchio sindaco, Iemmi, diceva: “Facendo le debite proporzioni, la cooperativa a Campegine, è un po’ come la Fiat a Torino”. In cooperativa, veniva gente che aveva dei numeri che non aveva potuto esprimere diversamente, perché dal punto di vista scolastico si era dovuta fermare. Non era gente che si accontentava di fare il proprio lavoro, di portare semplicemente a casa la busta paga; era gente che partecipava veramente: le assemblee erano affollate, i consigli si facevano tutti di sera e ancora di più le assemblee e non erano ore pagate, erano un servizio reso alla propria società. C’era questo attaccamento a questa realtà che avevano costruito.
Per fare un esempio, negli anni ’50 c’erano difficoltà di lavoro per tutti, c’erano più braccia che lavoro, allora una parte dei soci andò a lavorare in Polonia, in modo che la cooperativa avesse meno dipendenti; poi rientrarono e uno di questi, Cavalchi, diventò anche presidente.» [VD]

«In quel momento la cooperativa, dando lavoro a 200 persone, manteneva 200 famiglie, circa 1000 persone sui 3500 abitanti di Campegine. Aveva quindi un ruolo e tutti ne eravamo consapevoli e ne erano consapevoli anche le istituzioni pubbliche. Tant’è vero che anche l’ente pubblico a volte veniva a porci dei problemi che erano anche più grandi delle nostre possibilità di risposta, ma sapeva che solo qui poteva venire.
Del resto essendo la sola azienda importante, per un lungo periodo, quando c’era una situazione da risolvere, noi non eravamo sordi e insensibili. Eravamo in un piccolo paese, ci conoscevamo tutti e quindi quando c’era una necessità, nel limite del possibile, noi siamo sempre intervenuti e questo ha creato nei confronti della cooperativa una certa riconoscenza da parte della collettività.» [LR]


3. LA SCELTA DI ANDARE SUL MERCATO DIRETTAMENTE

Nella prima metà degli anni '50, la cooperativa, viste anche le condizioni di appalto imposte dal Consorzio cooperative di produzione e lavoro (CCPL), decide di andare sul mercato direttamente.

«Il primo lavoro che abbiamo fatto tramite il Consorzio è stato un ponte e un sottopassaggio sulla Porrettana che i tedeschi avevano distrutto; è stato il primo lavoro che abbiamo fatto fuori sede. Poi siamo andati a Milano, nel '49, in via Ravenna; poi siamo andati a Sesto San Giovanni, tramite il Consorzio, e a Monza, dove abbiamo costruito due case popolari. Durante questo periodo abbiamo conosciuto il presidente della Cooperativa reduci e artigiani che aveva quattro case da costruire in Brianza; allora siamo andati a Triuggio, un paesino della Brianza. Poi si vede che abbiamo acquisito una certa stima e ci hanno offerto di andare ad Abbiategrasso; poi da lì siamo andati a Nerviano, a Legnano e  a Cassano Magnago.
Poi dopo siamo tornati a casa, nel ’53, qui al paesello. Il paesello non è che offrisse grandi cose, e allora abbiamo cominciato ad andare in cerca del lavoro. Abbiamo acquisito del lavoro tramite il Consorzio delle cooperative di Mantova, poi siamo tornati ancora qui. Abbiamo preso la piazza di Parma e a Parma abbiamo costruito dappertutto. Ci siamo arrivati perché avevamo iniziato a fare i solai prefabbricati e intonacati e avevamo assunto un geometra che a un bel momento, m'ha detto: “Ma non possiamo allargare il giro? Anziché andar sempre nel reggiano, puoi andare dove vuoi e non per forza lontano, puoi andare a Parma”.» [AC]

«Il Consorzio per un certo periodo di tempo ha sicuramente svolto un ruolo molto importante, perché le piccole cooperative non avevano tutti i titoli e i requisiti e quindi non avevano la possibilità di concorrere a certi lavori, mentre il Consorzio assolveva a questo ruolo nei confronti degli enti pubblici e una volta vinti gli appalti assegnava i lavori alle cooperative.
Poi però anche le piccole cooperative sono diventate grandi, hanno acquisito le iscrizioni e i titoli per presentarsi direttamente e quindi anche il ruolo del Consorzio si è modificato, perché, insomma, le cooperative tradizionali edili sono diventate adulte.» [LR]

La scelta risulta felice e le condizioni migliorano: a metà degli anni ’50 viene promossa una mutua interna e nel 1954 viene assunto il primo responsabile tecnico, Livio Spaggiari, che anni dopo diventerà presidente proprio del CCPL.

«La mutua interna ha avuto un rilievo importante dal punto di vista della solidarietà cooperativa.
In quel periodo gli operai non erano tutelati come gli impiegati: mentre per questi c’era già una normativa che prevedeva il salario completo nel periodo di assenza per malattia, per gli operai il riconoscimento era solo parziale, sia per l’entità del salario, sia perché c’era una franchigia di qualche giorno.
Con la mutua interna, ogni lavoratore lasciava una piccola quota dalla propria busta paga che l’azienda equiparava e si costituiva così un residuo di cassa cui si attingeva nel momento in cui uno aveva la sventura di ammalarsi. L’integrazione non era totale, ma comunque era buona e per alcuni casi particolarmente sfortunati è stata la salvaguardia di un salario che magari era l’unico.» [LR2]

Sempre in questi anni il dibattito interno sull’apertura a nuovi soci porta ad affermare il concetto di cooperativa aperta, pur con una rigida selezione.

«Negli anni ’50 degli aspiranti soci veniva fatta una radiografia profonda; successivamente invece le porte vennero aperte maggiormente, per due motivi distinti.
Anzitutto, nel passaggio generazionale fra la vecchia guardia, la generazione prima di me e la mia, c’è stato un rinnovamento anche dei principi. I vecchi soci erano persone serissime, oneste, che davano la vita per la cooperativa, ma erano più conservatori e, in tutta buona fede, ostacolavano il rinnovamento. Con la mia generazione invece si era messo in moto un meccanismo di rinnovamento, anche rispetto alla valutazione degli aspiranti soci.
In secondo luogo, vigeva ancora la legge che prevedeva, per le cooperative di produzione e lavoro, l’esenzione dalle imposte degli utili non distribuiti e accantonati a fondo indivisibile. Le cooperative di produzione e lavoro, per essere riconosciute tali, dovevano rispettare un limite del 10% nella proporzione degli impiegati rispetto agli operai. Noi avevamo già un numero d’impiegati meritevoli di diventare soci, ma che per quella legge non potevano entrare a far parte del corpo sociale; così si sono aperte le porte agli operai, perché aumentando il loro numero diventava possibile premiare chi, impiegato, aveva un merito professionale e morale riconosciuto.» [LR2]

«Per diventare socio uno veniva radiografato bene, la discussione veniva fatta in Consiglio di amministrazione, il percorso era un percorso significativo. Allora diventare socio era un distinguersi dagli altri, poi che tu facessi il geometra o il manovale non era importante; per qualcuno era anche un modo per distinguersi dal punto di vista sociale, era visto come un’evoluzione della sua qualità all’interno dell’azienda. Allora era un binario molto rigido e non era legato all’aspetto economico, diventavi socio infatti con una quota ridottissima, ma ci voleva provata fede.» [VR]

Nel 1956 viene eletto presidente Nello Cavalchi, con vice presidente Aurelio Conti che in seguito gli succederà.
La nuova dirigenza si distingue per scelte strategiche controcorrente. 


4. L’INGRESSO NEL MERCATO IMMOBILIARE  

Negli anni ’60 la cooperativa entra nel mercato immobiliare, nonostante l’ostilità della Federcoop e del CCPL reggiani, che contrastavano tale attività ritenendola speculativa.

«Quando è iniziato il boom dell’edilizia immobiliare e sono sorte le prime finanziarie, noi eravamo un’azienda che aveva un certo nome e quindi abbiamo iniziato a lavorare con questi privati.
La professionalità dei nostri capi cantiere, dei nostri primi tecnici era tale che il committente ci delegava una serie di operazioni in cantiere: le varianti, i rapporti con gli acquirenti degli appartamenti, per cui ci siamo resi conto che, via, via, si acquisiva una certa professionalità anche nella gestione del lavoro, non solo per la costruzione, ma anche nel rapporto con la committenza.
Qui ci siamo posti un interrogativo, che allora sembrava rivoluzionario: “Se siamo capaci di costruire i fabbricati, se abbiamo una discreta capacità di rapporto con gli acquirenti, perché non provare ad acquistare un’area e poi a vendere direttamente?”
Detto adesso, questo sembra sia l’uovo di Colombo, ma in quel momento le linee strategiche del movimento cooperativo non concordavano sul fare queste operazioni perché sembrava che si volesse fare gli speculatori, gli immobiliaristi.
Paroloni grossi che erano molto distanti dalla realtà: si trattava solo, anziché di essere in concorrenza con tanti e quindi se andava bene non rimetterci, di avere un margine di redditività sicuramente diverso. In quel tempo poi, c’era veramente una richiesta esponenziale di alloggi e ci rendevamo conto che nel periodo dell’anno e mezzo, che è il periodo che serve per iniziare e terminare un cantiere, c’erano magari degli incrementi dei prezzi di mercato del 30-40% per cui la gestione economica del cantiere diventava una cosa importante.» [LR]

«Abbiamo dovuto fare i conti però con un movimento cooperativo più complessivo che in quel momento non gradiva che una cooperativa si mettesse nel mondo speculativo. Che poi speculativo lo sarebbe stato forse ancora di più se non fosse entrata anche la cooperazione. Se il movimento cooperativo non avesse scelto di entrare in questo business, oltre che aver perso un’opportunità di lavoro importante, avrebbe dato anche un cattivo servizio agli acquirenti, a quelli che esprimevano il bisogno di acquistare un appartamento. Noi siamo stati i primi a dare un maggiore rapporto qualità prezzo, perché credo che non sia una novità, senza fare di ogni erba un fascio, che quando il mercato domanda, come risposta ottiene molto più frequentemente cose fatte non bene. Noi avevamo invece, ed è stato anche questo premiato dal mercato, lo spirito morale e professionale di non vendere cose fatte male. C’era l’orgoglio del costruire bene. I nostri capi cantiere se qualcuno gli avesse detto di fare una cosa fatta male non l’avrebbero fatta perché avevano la loro dignità professionale, Non gli si poteva dire: “Fai questa cosa tanto per farla, perché c’è la richiesta”; non c’era verso, perché ognuno spendeva la propria dignità professionale, la propria passione. Questo era un clima che si respirava, che si leggeva e questa è la nostra storia.» [LR]  

«Cito un esempio: il prezzo dell’intonaco. L’intonaco può essere fatto a “civile”, dove c’è abitazione, e grezzo, nelle cantine, i garage, eccetera. I nostri muratori, non riuscivano a fare l’intonaco grezzo; prendevamo meno, ma c’era l’orgoglio di una professionalità: “Perché se devo fare una cosa fatta così, non la faccio! Cosa c'entra se è per una cantina, io sono capace l’intonaco di farlo così!”. [VD]

«Io come presidente, ho ricevuto una lettera da un cliente di Correggio, dove avevamo costruito per un immobiliarista da cui il cliente aveva acquistato, che sapendo che eravamo noi ad aver costruito il fabbricato e avendo un problema di umidità ci ha scritto dicendo: “Guardate, io ho questo problema, ho già pagato tutto l’appartamento e so che quando si è pagato tutto le cose diventano lunghe...”. La cooperativa aveva una persona che di lavoro andava a fare i ritocchi, a correggere le cose non fatte bene e faceva esclusivamente questo: il giorno dopo è andato a risolvere il problema. Quindi quel signore ha scritto un'altra lettera dicendo: “Vi dò atto che siete delle persone serie, perché non avrei pensato che dopo aver pagato tutto ci fosse questa tempestività”.
La cooperativa aveva creato anche questo nel suo percorso, noi eravamo queste persone e quindi per questo ambiente credo che fosse, dal mio punto di vista, ma anche dal punto di vista del buon senso, un valore aggiunto, qualcosa di cui essere orgogliosi.» [LR]


5. LE ATTIVITÀ INDUSTRIALI: I SOLAI E LA CERAMICA  

È proprio grazie al successo di tale iniziativa che si creano le condizioni per intraprendere due nuovi indirizzi produttivi: la produzione dei solai prefabbricati e quella della ceramica.

«Con la scelta del mercato immobiliare l’azienda, pur andando contro certi indirizzi e pagando per questo anche certi piccoli prezzi, si è patrimonializzata e quindi ha avuto un’autosufficienza finanziaria che ha permesso poi di fare degli investimenti che erano al di fuori della tradizionale edilizia.» [LR]  

«I solai erano un settore legato all’edilizia perché era una componente stessa del processo produttivo dell’edile, però è sempre stato abbastanza marginale sia in termini di occupazione e di manodopera che in termini economici. C’è da dire comunque che i solai, bene o male, riuscivano sempre a guadagnarsi la pagnotta.» [VR]  

«Il reparto solai pur nella pochezza, perché è un’attività povera, guadagnava e ha dato la possibilità di assumere per un lavoro di manovalanza persone che venivano via dall’agricoltura. Anche in questo caso la motivazione era l’impiego della gente; d’altra parte i soci erano gente che è andata in Polonia perché non c’era lavoro, persone che qui erano già muratori e là sono andati a fare il bitume, per cui c’era una sensibilità particolare, naturale, epidermica.» [VD]  


Nel caso della ceramica, rispetto alla distanza dal comprensorio tipico di Sassuolo, prevalgono considerazioni di ordine sociale: il desiderio di dare risposta alla domanda locale di lavoro, specie femminile.

«La scelta nel 1960 di avviare la produzione della ceramica deriva dall’esigenza di occupare del personale femminile. A Campegine, infatti, la disoccupazione femminile era totale.
Eravamo nel settore e quindi sapevamo di produrre prodotti che l’edilizia avrebbe assorbito, sapevamo che avremmo investito in un settore che era in sintonia con lo sviluppo esponenziale dell’edilizia e quindi pensavamo di dar vita ad un settore che non sarebbe stato negativo agli effetti dell’economia delle nostre zone.
Ma la priorità di valutazione comunque era l’occupazione, tant’è vero che tutti gli indicatori ci consigliavano, se proprio volevamo dar vita ad una ceramica, di andare a Sassuolo, perché là si trovano i commerciali validi, là si trovano i tecnici, là ci sono i fornitori delle attrezzature e quindi l’assistenza. Tutti quanti ci suggerivano di andare là. Ricevemmo anche suggerimenti qualificati, per esempio dall’Iris, oggi uno dei colossi maggiori della ceramica, per la quale abbiamo realizzato delle strutture importanti come costruttori, e con cui avevamo un certo rapporto, ci dicevano: “Venite a Sassuolo se volete produrre, perché qui andate al bar, trovate i commerciali”. Cioè lì al bar si discute di come risolvere i problemi della ceramica, a Campegine al bar, si parla d’altro. Noi ci abbiamo riflettuto, però ha prevalso la prospettiva di assumere 50 donne.» [LR]  

«La ceramica è frutto di una grande volontà di dare delle risposte sociali al territorio, ma di pochissima competenza tecnica.
Per questo bisognava andare a recuperare professionalità specifiche dal territorio di Sassuolo, e questo alla lunga divenne uno dei motivi di discussione interna. Queste persone erano infatti fuori dal nostro contesto sociale, avevano come riferimento l’ambiente prettamente privatistico di Sassuolo, si doveva pagarli parecchio, prendevano più loro del presidente. Questo, qui dove si sapeva tutto di tutti, dove si facevano discussioni per dare un aumento di 3 lire a una persona, ha sempre creato una specie di tensione.» [VR]   
 
«Va precisato che lo stabilimento della Campeginese veniva detto “ceramica” ma si doveva intendere “smalteria”, perché aveva fatto la scelta di fare la bicottura, cioè un prodotto che veniva cotto due volte: la prima quando facevano il supporto a Sassuolo, la seconda a Campegine dopo la smaltatura e le varie applicazioni.» [VR]

«Va anche ricordato che siamo sempre stati all’avanguardia sulla salute dei lavoratori; i sindacati venivano a vedere cosa c’era a Campegine e questo diventava per loro la base per andare a fare le battaglie a Sassuolo.
Rispetto ad esempio ai livelli di piombo nel sangue dei lavoratori, poiché eravamo fuori dalla zona di Sassuolo, c’era imposto un tasso inferiore a quello imposto a Sassuolo e noi lo accettavamo perché la direzione dell’azienda sulla salute diceva: “Non si transige”. Così poi il sindacato faceva battaglia a Sassuolo perché si rispettassero i parametri di Campegine.» [LR2] 

Le difficoltà iniziali vengono superate quando si decide di puntare su una produzione qualitativa, introducendo tipologie particolari sul decoro a mano. Negli anni ’70 la ceramica Campeginese acquisisce così prestigio nel settore, sia sul mercato italiano che estero.  

«La Campeginese, poiché non poteva competere con i grossi produttori che avevano storia, tradizione, capacità produttiva, organizzativa e commerciale, non faceva un discorso in termini di quantità ma di qualità, un discorso di nicchia, un prodotto che fosse più evoluto della media. Per questo, almeno inizialmente, il settore edile non la utilizzava come fornitore per le sue costruzioni, in cui ricercava prodotti più concorrenziali rispetto al prezzo. C’è stato solo un periodo in cui si è cercato di integrare la produzione, quando si è fatta la scelta di cominciare a personalizzare un pochino di più l’edilizia (puntando a migliorare le finiture per spuntare qualcosa di più come prezzo), ma è sempre stato qualcosa di marginale. La ceramica realizzava prodotti secondo due linee: una, che copriva la stragrande maggioranza, dettata dall’ufficio artistico interno, che poi era una persona che aveva una certa sensibilità e definiva la linea assieme al responsabile di produzione e al commerciale, che identificava le linee di tendenza del mercato. Poi c’era l’altra linea che ha realizzato collaborando con Roberta di Camerino, sulla scia di quasi tutte le aziende del settore che si erano legate ad uno stilista,.» [VR]  


6. LA MANCATA UNIFICAZIONE NEL 1976

Nel 1976 la proposta di unificazione in Coopsette vede favorevole una maggioranza considerata troppo ristretta perché una scelta irreversibile non venga affrontata in un clima di divisione tra i soci. La fusione non viene quindi approvata.

«Avevamo aderito allo studio di fattibilità perché poteva essere una prospettiva anche per la nostra cooperativa, ma alla fine il Consiglio aveva deciso che se non ci fosse stata una maggioranza qualificata favorevole all’unificazione non sarebbe stato giusto dividere l’azienda. In quel periodo la CNEC fra soci e dipendenti era un gruppo di circa duecentoventi persone ed era l’azienda più importante di Campegine, ma era una media cooperativa anche nell’universo cooperativo, per cui abbiamo ritenuto, a torto o a ragione, che non valesse la pena fare questa frattura, perché era un frattura vera, si leggeva nella base sociale, nello stesso Consiglio di amministrazione non c’era unanimità.» [LR]

«È stato un dibattito molto vivo. Intanto su motivazioni di ordine generale e son venuti giù diverse volte i dirigenti provinciali a parlare dell’inquadramento, degli andamenti del mercato, eccetera. Poi dopo il discorso si è fatto all’interno. Quando siamo andati alla votazione, si è votato per appello nominale. Il presidente [Conti ndr] non ha mai voluto assumere una posizione ben definita, ma ha messo in evidenza quelli che erano i vantaggi e gli svantaggi, perché come sempre la medaglia ha un rovescio e il bianco e il nero non esistono in natura.» [VD]  

«Non era un’antitesi contro l’unificazione, perché si capiva che era un processo che andava perseguito, un processo inevitabile, posto dallo sviluppo della società, dal numero elevato di aziende presenti nella nostra provincia e nella provincia di Parma.
Però la cooperativa di Campegine aveva una sua vitalità, anche rispetto alle altre aziende: il fatto che avesse intrapreso iniziative immobiliari fortemente contrastate dall’alto, scelte che poi hanno fatto tutti; il discorso di aver dato avvio ad una ceramica, che era completamente fuori dalla nostra cultura industriale. C’era una vitalità, una partecipazione attiva, una spinta, una unitarietà…
Siamo stati accusati di essere aziendalisti. A parte il fatto che essere aziendalisti di per sé non è un giudizio negativo, si tratta di vedere come lo si legge e in quali circostanze; io credo che una dose di aziendalismo è bene che ci sia sempre. Se non c’è un attaccamento ad una maglia, la squadra perde; contan le gambe, ma conta anche la testa, e se uno si è attaccato è più facile che la sprema e che salti fuori qualcosa. 
Questi erano i discorsi di carattere generale che stavano alla base della grande maggioranza dei muratori: erano contrari perché non vedevano chiaro questa indispensabilità o necessità dell’unificazione.» [VD]

«La cooperativa era prevalentemente una cooperativa di stampo edile, perciò la mentalità trainante era l’edile. La ceramica era nata agli inizi degli anni ’60 prevalentemente per dare una risposta di tipo occupazionale alle donne presenti sul territorio ed era nato anche il reparto dei solai prefabbricati. Questi due settori, in modo particolare la ceramica, dal punto di vista dei risultati economici, han sempre tardato. Frutto dell’inesperienza, frutto di tante cose, però nei confronti di chi lavorava nell’edile erano sempre dei rapporti un pochino subalterni. La ceramica si sentiva sempre figlia, non sorella, e ha sempre avuto questo rapporto di dipendenza da parte dell’edile.
Questo si è evidenziato abbastanza anche nel momento dell’unificazione. La ceramica è uno di quelli che ha spinto di più nei confronti dell’unificazione e quelli dell’edile no. Prevalentemente attorno a un problema di lavoro, perché per la ceramica cambiava poco il fatto che si andasse in Coopsette, mentre per un edile il fatto di andare a lavorare a Genova o a Milano aveva la sua importanza.» [VR]  

«Ho convocato un'assemblea, eravamo circa 200, e quando ci siamo trovati quelli che lavoravano nei posti fissi, solai e ceramica, erano d'accordo, quelli che dovevano andare lontano no. Allora ho detto: “Qui c'è da prendere una decisione, perché non posso dividere… se mi scappa la gente, come facciamo a fare i lavori?”. Perché i più decisi erano quelli che solitamente usavamo come capi cantiere, che han detto: “Guarda che io via non ci vado.”» [AC]

«Per essere sinceri, tra le motivazioni stava anche una condizione acquisita che permetteva ai lavoratori e ai soci della cooperativa di avere, se non una remunerazione leggermente più importante, la sicurezza del lavoro.
E poi il campanile contava allora molto: nella prima ipotesi di progetto la sede di Coopsette era previsto che fosse a Campegine, per l’equidistanza dai Comuni che facevano parte del progetto; alla fine però è stato deciso per Castelnuovo.
Per cui, insomma, mettendo assieme una serie di cose, alla fine la base aveva deciso favorevolmente solo per il 52%, quota che non è stata ritenuta sufficiente.» [LR]



7. LE ATTIVITÀ TRA 1977 E 1990

Nel 1977 viene eletto presidente Luigi Rozzi, pur favorevole al progetto Coopsette.
La cooperativa investe per ammodernare la produzione di solai prefabbricati e per un nuovo stabilimento per la ceramica.
Il fatturato di quest’ultimo nel corso degli anni Ottanta quintuplica.

«La scelta della costruzione del nuovo stabilimento l’ho vissuta prevalentemente in due modi.
Il primo è che il mondo della ceramica stava cambiando perché alcune tecnologie nuove stavano trasformando notevolmente i numeri, nel senso che sempre più chi era piccolo veniva marginalizzato.
L’altro discorso era quello di una tecnologia diversa, qua c’era una smalteria, là il discorso della monocottura. Il settore della ceramica è sempre stato in notevole movimento e c’era la necessità di dare risposte diverse alla clientela, perché se riesci a dare due o tre tipi di prodotti, la bicottura, la bicottura firmata, la monocottura da pavimento, la monocottura da rivestimento, diventi un po’ più importante.
Un’altra cosa però, che non è mai stata detta, ma un pochino si è annusata nell’aria, era il fatto che se riuscivi a vincere questa scommessa potevi finalmente diventare abbastanza preponderante all’interno della tua cooperativa, non dico superare quell’aspetto di filiazione, ma comunque poter dire: “Comincio a guadagnare, ad essere importante, a fare delle produzioni di un certo tipo, ho uno stabilimento all’ultimo grido”.» [VR]  

«Anche lo stabilimento di "monocottura" non era a ciclo completo, perché non c’era "l’atomizzato" (cioè la lavorazione di quella polvere di argilla che veniva preparata unendo una serie di argille e prodotti particolari che poi messi dentro l’acqua e "atomizzati" con l’aria calda, diventavano una polvere impalpabile che, opportunamente pressata negli stampi, diventava il supporto rimanendo però sempre cruda). Anche qui il supporto, una volta messo in linea, seguiva un procedimento simile a quello della smalteria e andava a finire nel forno, dove quindi cuoceva una volta sola.» [VR]  

«In ceramica c’era un clima di lavoro splendido, impensabile adesso; che però è cambiato già con il nuovo stabilimento e con l’avvento di nuovo personale venuto da fuori: un altro capo fabbrica, la figura del pressista, persone che avevano esperienze e una filosofia completamente diversa, una mentalità molto più industrializzata e questo portò a cambiare molto. Si cominciarono a vedere le persone che non si fermavano più, finito l’orario di lavoro, a fare le quattro chiacchere o le battute, finivano e andavano via.» [VR]


Nel 1986 la produzione di solai prefabbricati viene chiusa e l’attività trasferita a Brescello presso lo stabilimento del CCPL che, producendo in loco anche il latterizio, risulta più competitivo.

Dal canto suo, il settore edile, in questo periodo si espande e rafforza, realizzando opere di grande rilevanza nelle zone storiche di radicamento: Reggio e Parma, con una particolare presenza nel segmento immobiliare residenziale.

«Con la mancata unificazione, chi è andato in Coopsette, la Cooperativa braccianti, ha fatto un suo percorso, la CNEC ne ha fatto un altro. Ma l’avere una realtà così vicina, i braccianti, scatenò non dico una gara, ma un confronto: si sapeva subito cosa succedeva in Coopsette, probabilmente loro sapevano cosa succedeva da noi. In più  ti sentivi come uno che deve dimostrare perché ha fatto una scelta e di essere in grado non dico di fare le cose meglio degli altri, ma quasi. Ad esempio, rispetto alle attività sociali, se prima erano strade molto nette, ogni realtà aveva la sua, dopo si è cercato di uniformare un pochino di più, anche perché le differenze erano difficilmente sostenibili, dato che si viveva tutti nello stesso paese, si lavorava tutti in cooperativa, quasi tutti avevano ambiti simili e poi ci si trovava allo stesso bar.» [VR]    


8. L’UNIFICAZIONE DEL 1990

Alla fine degli anni ’80, maturata la consapevolezza che lo sviluppo dell’azienda si sarebbe giocato su livelli patrimoniali e imprenditoriali più consistenti rispetto a quelli raggiunti, la maggioranza dei soci valuta positivamente l’unificazione in Coopsette che si realizza il 1° gennaio 1990.

«La coesione interna per me è stato uno degli elementi che han contato di più. L’armonia era cambiata, non c’era più la coesione che c’era prima, la famiglia, c’erano due famiglie. Se fosse continuata la coesione che c’era, l’armonia, l’unità d’intenti, probabilmente la cooperativa di Campegine avrebbe fatto molto di più. E' stata una cosa molto sofferta, perchè eravamo innamorati, veniva a mancare una parte di noi stessi; dopo la famiglia, immediatamente, la famiglia era questa.» [VD]

«Il Consiglio di amministrazione si è posto allora un problema fra i più difficili per un’azienda, cioè pensare di fare una scelta tutta proiettata al futuro partendo da una condizione di non necessità. Perché se uno dice: “Ragazzi, i conti non tornano il bilancio è in rosso qui bisogna prendere una decisione”, beh, questa non è una decisione tanto ponderata, è una decisione di necessità.
Nel momento in cui c’è quasi l’auto-sufficienza finanziaria, c’è una patrimonialità di un certo tipo, c’è ancora un buon rapporto con il mercato immobiliare è difficile dire: “Sarebbe bene fare una scelta”, perché un altro dice: “Per quale motivo? Dove sta la necessità?”, “Sarà futura ”… Un conto è prendere delle decisioni quando non si può fare altro, un conto è prenderle non avendo l’acqua alla gola e quindi non avendo una necessità impellente. Allora la valutazione in Consiglio è stata: “Conserviamo meglio la nostra storia, il posto di lavoro dei nostri soci, resistendo da soli, oppure cogliendo l’occasione che ci è stata proposta di entrare in Coopsette assieme ad un'altra cooperativa la CEIM di Mantova?”. E così, dopo un anno di discussioni e valutazioni, direi abbastanza serene anche se non unanimi, l’Assemblea ha deciso di aderire all’unificazione con una maggioranza qualificata 60 e 40.» [LR]



*Le citazioni in corsivo sono tratte dalle testimonianze che compongono il fondo di fonti orali dell’archivio della Fondazione.
Quelle del 2008 sono state raccolte su incarico assegnato dalla Fondazione a Gisp Italia Marketing e al Centro per la cultura d’impresa da Lucilla De Leonardis e Giuseppe Paletta, con le riprese video di Sergio Villanova. Quelle successive sono state raccolte direttamente dallo staff della Fondazione.
Le sigle al fondo delle citazioni identificano i diversi testimoni, ovvero:
AC – Aurelio Conti, testimonianza del 16-9-2008
VD – Valter Dall’argine, testimonianza del 24-7-2008
VR – Valerio Rinaldini, testimonianza del 11-9-2012
LR – Luigi Rozzi, testimonianze del 22-4-2008 e (LR2) del 18-10-2012
La selezione dei brani qui riportati è stata effettuata da Carlo Alzati.
In allegato è consultabile un profilo sintetico, senza le citazioni dalle testimonianze.
   
L’Archivio storico (vedi scheda sull'intervento di riordino)
All’inizio dell’intervento di riordino si è partiti riorganizzando le serie costituite da registri, più organiche e identificabili. Si è quindi provveduto a selezionare la restante documentazione e, riconosciuti i fascicoli attribuibili con certezza al fondo, li si è distribuiti in serie, alcune delle quali originarie, altre costituite in fase di riordino.
Scritture societarie
1. Atti istitutivi, statuti e modificazioni (1930-1988), 16 unità
2. Soci e verbali delle Assemblee dei soci (1940-1989), 8 unità
3. Collegio sindacale (1939-1989), 5 unità
4. Consiglio di amministrazione (1930-1972), 9 unità
Amministrazione
1. Bilanci e documentazione fiscale (1961-1990), 29 unità
2. Inventari (1947-1984), 14 unità
3. Cespiti ammortizzabili (1967-1985), 14 unità
4. Compensi a terzi (1957-1974), 2 unità
5. Piano dei conti, mastri e altri documenti contabili (1980-1985), 5 unità
6. Magazzino (1957-1976), 5 unità
7. Finanziamenti agevolati macchinari (1982-1988), 6 unità
8. Miscellanea (1941-1990), 23 unità.
Lavori
1. Lavori, cantieri e gestione immobili e terreni (1963-1989), 44 unità



 
 


 

 

 

 

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